di Francesco Selva

Francesco Pintaudi àlias Foggy, è un musicista/producer italiano con sede a Lisbona, nei suoi concerti dal vivo presenta un live set con una componente elettronica fatta di delay e feedback, mischiata a momenti di improvvisazione con l’uso di samples e drum machine, spaziando tra dance, ritmi tribali, tecno e funky.
Con la sua intervista inauguriamo e diamo il via alla nuova rubrica A Tasca do Chico.

Ciao Foggy, grazie per essere qui a Sosteniamo Pereira. Vivi in Portogallo già da un po’ di tempo, qual è la tua relazione con la terra lusitana e Lisbona?

Ciao, grazie a voi! Vivo in Portogallo da circa 4 anni e a Lisbona mi sento abbastanza a casa, è un po’ come una relazione amorosa, con molti alti e bassi. Rispetto ad altri paesi dove ho vissuto, qui è tutto relativamente tranquillo, e credo sia una piccola caratteristica che fa parte del popolo portoghese.
C’è più semplicità, e non mi dispiace vivere in una capitale a portata d’uomo, soprattutto dopo l’esperienza berlinese, bellissima e intensa ma dispersiva.

Con Lisbona, in particolare, sono sceso a compromessi, nel senso che quando ho pensato che sarei potuto andare via, magari a Porto, mi sono fatto coinvolgere dai legami, professionali e non, che ho creato qui, nonostante abbia uno stile di vita e faccia una musica, secondo me, non perfettamente in linea con questa città.
È difficile resistere al fascino di Lisbona, pur se dopo quasi 4 anni, spesso mi senta ancora un pesce fuor d’acqua.

Dopo città come Milano e Berlino, ho vissuto in Algarve per alcuni mesi, in un calmo paesino di pescatori, in un Portogallo al tempo, per me, ben poco conosciuto. Ho avuto la fortuna poi, di visitarlo fugacemente da nord a sud e posso dire che è un Paese che mi piace e che sa mettermi a mio agio.

Probabilmente non imparerò mai a pronunciare bene le parole in lingua, ma devo dire che tra i vari luoghi, ad oggi, qui è dove sto meglio. Musicalmente parlando, mi sono sentito sempre ben accolto, anche se da quando vivo a Lisbona, più volte, vedendo suonare altra gente, ho pensato che forse avrei dovuto cambiare mestiere, nel senso che la scena musicale è composta di artisti veramente bravi, e questo è un motivo di crescita. Tralasciando lo stop forzato, in termini lavorativi stava andando molto bene e a differenza dell’Italia, dove probabilmente per la musica che faccio, avrei avuto molte meno possibilità, qui c’è stata una percezione buona, il che, per me, è fondamentale.

Hai iniziato un progetto di musica elettronica che abbraccia varie influenze…

Dopo varie esperienze con band in Italia e in Portogallo (Wattafog, Hank!, Nicolò Carnesi), ho sentito l’esigenza di fare qualcosa da solo, dove io possa facilmente gestire ogni dettaglio. E’ stato anche un modo per avere nuovi stimoli ed essere più libero artisticamente, dato che col tempo, forse si diventa più selettivi.

Tutte le influenze che si trovano nella mia musica sono sempre state una contaminazione di quello che vivo, quasi sempre, direttamente.

Ho raccolto quindi in giro un po’ di informazioni e stimoli nuovi, ho ascoltato e scoperto tanta musica che non conoscevo, ed è avvenuto in maniera spontanea mettere tutto insieme e mischiare l’elettronica con, a volte, la “forma canzone”, passando per il funky o per il samba, la disco o il pop. Se questo mix mi risulta interessante o melodico, per me va bene tutto.

Hai un metodo definito di composizione?

Normalmente quando ho qualche idea su una parte musicale o dei testi, cerco sempre di appuntarlo per non dimenticarlo.

A volte mi capita di scrivere e registrare tantissimo e altre volte no.
Normalmente strimpellando uno strumento mi salta fuori qualche melodia e il più delle volte cerco di incastrargli i testi che scrivo in svariati e differenti periodi e momenti. Spesso in questo progetto, Foggy, lavoro a distanza con vari amici musicisti, mi piace sempre molto collaborare ed ho registrato tante voci in tante lingue diverse, chiedendo qua e là, o registrando a casa mia quando c’è la possibilità di farlo. Qualche volta invece mi godo il momento d’ispirazione, quando arriva, quasi sempre scatenato da un periodo di vita particolarmente difficile, cerco di immortalare tutto e subito, avendo la possibilità di registrare in casa.

Due tra i primi brani che ho messo su internet, My Day e To Welcome the Sadness (arrivati in radio e portati alla finale del Festival Termometro disputata al LAV Lisboa), sono venuti fuori di getto, arriva l’ispirazione e si immortala tutto subito, magari con qualche aiutino esterno, la luna piena o il meteo in linea con l’umore.
In genere questo è quello che preferisco, perché risulta più spontaneo, anche a me che l’ho realizzato.

Credo che il mio modo di comporre sia basato più sull’istinto che sulla tecnica, non sono un nerd della musica e non ho mai badato troppo alla teoria, compongo istintivamente, provando man mano l’armonia, tra i suoni e gli incastri che più mi convincono. E’ come un gioco o un puzzle, andando avanti passo dopo passo, sentendo di svuotarsi poco a poco.

Facciamo un salto indietro nel tempo. C’è stato un momento in cui hai deciso che saresti stato un musicista?

C’è stato, ed è stato quando in Italia, da Palermo, iniziavo a suonare in tour con delle band, su e giù per il Paese. Durante molti anni non ho avuto tempo per nient’altro, mi occupavo solo di musica, strumenti e concerti e ho realmente pensato che poteva essere la strada giusta, vedendo pian piano come andava.
Poi ho anche capito che sarebbe stato, in ogni caso, un lavoro di alti e bassi molto radicali, screditato, si, ma indispensabile.

Quali sono gli artisti a cui sei più legato?

Tra gli artisti che mi hanno influenzato di più, c’è Lucio Battisti, da sempre nei miei ascolti. Sono cresciuto con i vinili di mia madre in salotto ad alto volume, ma l’ho capito meglio solo svariati anni dopo, scavando più a fondo il personaggio e iniziando a suonare malissimo Con il nastro rosa, con una tastierina Casio:
la famigerata Pianola!

Poi tantissimo Damon Albarn, in qualsiasi suo progetto e i Velvet Underground, sempre presenti, e tanti tanti altri. Recentemente ho ascoltato molto i Nu Guinea, gli Acid Arab, Polo & Pan, tutta musica elettronica che mi sta influenzando molto.

Hai una lunga esperienza coltivata in Italia, quali sono le maggiori differenze con il Portogallo?

Credo che il Portogallo abbia tante similitudini con l’Italia, mentre una grande differenza che riscontro è quella geografica: essendo un Paese più piccolo, ha dei limiti legati alla propria dimensione. Musicalmente parlando, questo può incidere sui concerti ad esempio, avendo meno possibilità di variare luoghi e città.
Per il resto le dinamiche sono simili, forse il pubblico qui è più tranquillo e rispettoso, e c’è un’apertura diversa legata alla musica, almeno a Lisbona.

In Italia ho sempre avuto la percezione di trovarmi in un ambiente spesso chiuso e limitato, paradossalmente.

Prima del virus stavo riuscendo a fare quello che ho sempre voluto fare, cioè vivere di musica e stava andando bene con vari progetti, il feedback col pubblico rispetto alla mia musica è sempre stato curioso ed aperto, in generale positivo, nonostante alcune canzoni siano in italiano o comunque in lingue diverse.
La mia maggiore differenza sta nel fatto che qui ho potuto credere di realizzare qualcosa con un progetto così contaminato e vario, mentre in Italia, probabilmente, non so se avrei cantato esclusivamente in madrelingua.

Questa è una sfumatura importante, che dal punto di vista di un musicista può fare la differenza, ma la saudade dell’Italia è sempre tanta, con tutti i suoi pro e contro.

La diffusione dei contenuti multimediali è cambiata rapidamente nell’ultimo decennio, ti sei adattato facilmente al nuovo scenario?

Mi sono adattato e per certi aspetti si sono velocizzate delle dinamiche che prima erano più lente. Io ho la possibilità di registrare la mia musica in casa, da solo, con le mie macchine che sono le stesse di tanta altra gente. Il che permette di lavorare, anche a distanza, con più facilità. Di contro però c’è, da quello che percepisco, un sovraccarico di proposte e molte di queste vengono perse per come la musica, l’arte e anche le relazioni umane siano diventate “fast food”.

Ci sono tanti pro e contro e io, come quasi tutta la società, mi sono dovuto adattare. Adesso per artisti piccoli come me o anche per i grandi, ridurre le quantità, pensare di stampare dei dischi, non è più ovvio e comune come prima, guardando anche solo a dieci anni fa. Questo credo sia un peccato, ovviamente, ma noi tendiamo ad adattarci e a volte il progresso non si può fermare.

Come stai vivendo questo tempo di emergenza causato dal coronavirus?

Sto cercando di tenermi occupato il più possibile tra lavori domestici, cucina, serie Tv e registrando tanta musica nuova. A marzo, un po’ per occupare il tempo e un po’ per sdrammatizzare, nei limiti del possibile, questa situazione imprevedibile,
ho deciso di lavorare a un video di un nuovo brano, No Escurinho, coinvolgendo varie persone sparse per il mondo. Insieme a Daniele Pistone, ContraCampo e Garden Collective, abbiamo raccolto circa 120 video di amici e non, facendo qualcosa per pochi secondi sulla nostra musica.

Ognuno ha ballato o delirato ascoltando in anteprima il pezzo, adesso ne stiamo facendo un collage, che spero diventerà un ricordo allegro e lontano quando tutto questo finirà.

La musica è decisamente allegra e a breve capiremo quando farlo apparire.
In qualche modo mi è venuta voglia, attraverso quello che più mi piace fare, di immortalare questo momento e pensare che possa essere un regalo gradito alle persone, che nella perdizione di questa quarantena, hanno dedicato dieci minuti del loro tempo per esserci e dare vita al video.

E’ stato divertente e tutti si sono messi in gioco con autoironia.

Hai suggerimenti per i più giovani che si stanno affacciando al mondo della musica?

Direi che quasi mai è buona la prima. In generale bisogna essere pazienti e testardi. Io suono nel mio piccolo da più di 15 anni ma sono uno di quelli ancora “agli inizi”. Il compromesso, ad oggi, è stato quello di portare avanti sempre la mia musica così com’è, naturale per come sono e come mi viene.

Credo che bisogna essere onesti con se stessi anche in questo percorso e cercare di capire qual è l’obiettivo e cosa si cerca dalla musica, con realismo.
Per me la musica è una ragione di vita, senza la quale non avrei un posto nel mondo. Si tratta di realizzazione personale, per quel che si fa e per come lo si fa.

Poi subentra il lato economico, c’è chi ha la fortuna di poter contare s’un sostegno a prescindere e poter fare musica, chi ha il privilegio di poterci vivere e chi nessuna delle due. Non è sicuramente una strada facile, ma solo col tempo si capirà se è quello che stiamo realmente cercando, in alcuni casi può valere la pena provarci.

Lasciaci con un album da ascoltare

Vi lascio con 28 minuti di bellezza: Pink Moon di  Nick Drake

Francesco Selva è autore e ideatore del Collettivo Selva, un bar virtuale, un bancone bilingue, un luogo dove confrontarsi o farsi due risate attraverso racconti brevi e poesie, storie del quotidiano trascritte in chiavi differenti, che abbracciano vari temi, che finiscono per tentare di spiegare, o no, l’essere umano.