Eppure c’era odore di pioggia è un racconto di Alesa Herero pubblicato nell’antologia Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (effequ 2019, a cura di Igiaba Scego). Pubblichiamo un estratto del racconto di Herero per gentile concessione dell’autrice e della casa editrice effequ.

di Alesa Herero

Si sentiva stupida, stanca e stupida. Aveva avuto sempre coscienza di sé in quanto soggetto razzializzato. Era sempre stata Razza, poi finalmente Nera, poi si fece Donna e in un altro giorno ancora divenne Queer. E così camminava, sulle sue dita callose e secche senza temere la strada che avrebbe percorso. Fino a quel giorno, in cui non si sapeva spiegare che senso avesse quel ricordo adesso. Sì, era quello che era: Negra. Ma quel che lei intendeva per Negra non sarebbe mai stato compreso nello stesso modo da chi, prima che lei se ne impossessasse, le aveva affibbiato questa identità, da chi aveva costruito questa identità per poi vomitargliela adesso.

Sì, era Negra, era Nera, ma solo da quando l’aveva deciso lei, e lo era nel modo in cui aveva deciso lei. Era il 2029. E aumentava l’odore di pioggia.

Si rimise a camminare senza sapere dove andare. Prese il telefono. Voleva sentire Ieye. Voleva vedere Manal. Voleva tornare a Casa. Voleva tornare da sua figlia Maya e come sempre ritrovare la pace nei suoi grandi occhi neri. Trovò invece un messaggio del Nano. Aveva dimenticato di avergli scritto, qualche giorno prima, che sarebbe venuta a Roma. Il Nano era molto più che il suo compagno di banco, molto più che il suo migliore amico. Era quello con cui se ne andava in giro in motorino la sera tardi mentre preparavano la maturità; che la faceva spaventare e ridere quando prendeva quelle curve così strette da farle fermare il cuore.

Quello che si sentiva a suo agio nei suoi trentacinque metri quadri tanto da essere stato l’unico amico ad aver dormito a casa sua. Il Nano era quello che le voleva bene. Le voleva bene, eppure al liceo aveva deciso di avvicinarsi a Forza Nuova.

E sapeva che, per quanto lui potesse provare a spiegarglielo, i suoi amici fasci non avrebbero capito che lei non era Negra come gli altri negri, non era una straniera come gli altri stranieri. Loro, i fasci amici del Nano, semplicemente non avrebbero capito. E anche lui, nonostante lei glielo spiegasse, nonostante si arrabbiasse, non capiva che invece Matimba era come tutti gli altri. Alla fine chi erano questi altri?

E chi erano loro? E i cosidetti diversi erano diversi da chi? Chi era realmente diverso? Per lei era semplice: tutti questi altri erano uguali e diversi tra loro.

Il Nano le scriveva proponendo di incontrarsi, proprio là vicino alla sua vecchia scuola. Lei sentiva di avere un aspetto triste, svuotato. Forse non era il caso di presentarsi in quello stato dopo tutto quel tempo. Eppure gli rispose che stava arrivando. Quando lo vide, lui era esattamente come se lo ricordava; con la camicia, un signore bambino. E nonostante il tempo, aveva conservato quell’aria da ragazzino. Appena la vide le disse che era bellissima. Lei si ricordò di come quel ragazzo riusciva sempre a trovarla bella nei giorni in cui lei si sentiva triste e stanca. Be’? Ma che hai fatto? Hai cambiato nome, Matì? Un tempo lei era stata Matilde, e forse in parte lo era ancora, visto che quando il Nano la chiamava semplicemente Matì, non era con Matimba che pensava di parlare.

Viveva in Portogallo quando decise di cambiare nome. Conobbe un giorno un’anziana signora nera, mozambicana, che a sentire come tutti la nominassero ‘Mati’ per tutta la conversazione le si rivolse chiamandola Matimba. Quando Mati le disse il suo vero nome la signora le prese la mano e disse: Os teus olhos dizem que o teu nome é Matimba. Matimba significa Força. Garanto-te filha, nunca tiveste outro nome. La trovò una cosa tenera, ma nell’immediato non le diede molta importanza. Col tempo si rese conto che la donna che stava diventando era piuttosto lontana dalla vecchia Matilde. Quel nome non diceva più molto di lei. Fu allora che si ricordò della signora e pensò di poter diventare Matimba – in fondo ‘Mati’ era contenuta in Matimba e quindi avrebbe mantenuto entrambe le identità.

Quando cominciò con le prime performance pensò che le sarebbe servito anche un cognome.

Tutto il suo lavoro era sorto a partire da studi sull’epistemologie del Sud, narrative del Sud, esistenze del Sud. Si ricordò ancora che l’anziana signora era originaria di una zona nota come Sulé, ribattezzata così dalla colonizzazione lusitana perché identificava proprio il punto più a Sud del Mozambico, così era arrivata Matimba Sulé, nata dentro Matilde, così come Matilde era arrivata a Roma: da dentro un aeroporto o da dentro la città, chissà.

Il Nano sorrideva mentre ascoltava tutta quella storia. Sei sempre stata un po’ matta, una matta buona, aveva considerato alla fine. “I tuoi occhi dicono che il tuo nome è Matimba. Matimba significa Forza. Ti garantisco figlia mia, non hai mai avuto altro nome che questo”. Continuarono a parlare del più e del meno, cercando anche di riassumere l’uno all’altra cosa avessero fatto in quei vent’anni di vita.

Come se fosse possibile farlo, come se ce ne fosse davvero bisogno. Si stavano per salutare quando il Nano la guardò malizioso. Matì, certe scopate!

Non avevano mai fatto davvero l’amore. O forse sì. Si prendevano e respingevano con veemenza. Lui non conosceva le dita dei suoi piedi secchi e callosi, né aveva mai visto i suoi luminosi fiori neri, neanche sfiorati. Non si spogliavano mai del tutto. Come se quei vestiti potessero nascondere quella pelle che non volevano riconoscere l’uno all’altra. Passati più di vent’anni lei lo osservava.

Sentiva il pulsare dei polpastrelli come se lo stesse toccando. Avrebbe voluto bloccarlo per penetrarlo di nuovo. Voleva rientrare in quel corpo come si torna in una vecchia casa di infanzia, guardarsi intorno in silenzio in cerca di oggetti smarriti che le ricordassero lei.

Scoprì che non c’era bisogno di entrargli dentro per ritrovare quel pezzo di lei che gli aveva lasciato. Continuarono a parlare per ore. In quelle ore, ripensando a quella mattina davanti alla sua scuola, lei ritrovò i suoi frammenti ed ebbe la certezza che Matimba conteneva Matilde e che l’una non sarebbe potuta esistere senza l’altra. Non si era accorta che si era quasi fatto buio. Prese di corsa il telefono e vide che Ieye e Manal l’avevano cercata un’infinità di volte.

La stavano aspettando all’Auditorium per confermare che fosse tutto pronto per la performance. Sarebbe stata già l’indomani. Quando uscì dal bar dove erano stati non c’era quasi più sole ma faceva caldo.

C’era ancora odore di pioggia. Le piaceva, adesso, quell’odore.

Arrivò all’Auditorium di corsa. Manal e Ieye probabilmente erano al bar, mandò un messaggio a entrambi ma non andò a cercarli. Mentre cercava la sala Sinopoli incrociò tanti sguardi. Le persone le sorridevano senza sapere chi fosse. Ignoravano che Matimba Sulé era lei, così come era ancora Matilde.

Ignoravano che un tempo anche lei aveva abitato quegli spazi, così come aveva abitato tanti spazi di quella città che improvvisamente aveva smesso di essere il suo fantasma. Ed eccola lì, la sala Sinopoli. Non c’era più stata da quella sera in cui ci aveva cantato Sara Tavares. Aveva cantato solo per lei, ne era ancora convinta. Aveva pianto quando l’aveva sentita cantare Chuva de Verão. In creolo, in portoghese, nelle lingue che lei sapeva ma non parlava. In creolo, in portoghese, in Italia, a Roma. Ascoltandola seppe che se ne sarebbe andata. Oggi si chiedeva se andarsene fosse stata realmente l’unica opzione possibile.

Pensò che nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a lasciare la propria casa. Lei si era sentita così, senza più energie per resistere. Non se ne faceva più una colpa.

Quella terra l’aveva respinta, rifiutata e lei era venuta a riconciliarsi con quella che una volta era stata casa sua. La sala era pronta. Sparsi per terra si sdraiavano imponenti i collari dei suoi antenati schiavizzati. All’inizio le era sembrata un’idea assurda ma poi aveva fermamente creduto che sarebbe riuscita a farseli cedere in prestito dal Museo della Schiavitù di Hull, in Inghilterra.

In fondo le spettavano di diritto, non solo a lei ma a tutti quelli che come lei erano presenti, erano lì e non avevano memoria della schiavitù eppure restava viva in loro la memoria della perdita. Aveva sentito questa frase a una conferenza e l’aveva subito sentita profondamente vera. Poi a Hull, tra le immagini e gli oggetti che la lacerarono in singhiozzi, pensò che la memoria andava celebrata.

Anni dopo, ripensando a Hull, a quella perdita così presente, alla sua pelle, all’eredità storica su cui per troppo tempo si era taciuto, cominciò a buttar giù qualche idea sulla performance. Ieye ci aggiunse i dettagli e subito furono pronti a portarla in giro per il mondo. Su quei collari lei ci avrebbe danzato, con la forza delle sue dita secche e callose, senza mai calpestarli, onorandoli e celebrandoli a ogni passo.

Alesa Herero (Roma, 1984) vive a Lisbona. È enabler per il progetto internazionale Slate. Black. World. Arts in collaborazione con la compagnia Teatro Griot, si occupa anche di produzione. È attivista e artista, ex-membro fondatore dell’Istituto della Donna Nera in Portogallo (2018) e ha partecipato come performer alla Bo.Ca Biennale di Arte Contemporanea 2019.