Qualche settimana prima che il mio futuro ex coinquilino lasciasse la città decidemmo di organizzare una despedida, un festa di addio. C’eravamo dati appuntamento alle sette di sera in uno dei diciannove miradouros ufficiali, uno dei terrazzi più popolari e conosciuti della città e uno dei tanti punti panoramici dove si osservavano il Ponte 25 de Abril che attraversava il Tejo da una sponda all’altra e il Cristo Rei, statua che si ergeva dall’altra parte del fiume. 

Arrivai con Marco con mezz’ora abbondante di ritardo. João e Daniela erano già lì, Cecília invece non si presentò, ci inviò dopo qualche ora un messaggio per farci sapere che non si sentiva molto bene. Il miradouro di Santa Caterina era chiamato da chi lo frequentava anche l’Adamastor: il soprannome era dovuto alla presenza di una statua collocata al centro di questa splendida terrazza vista Tejo, raffigurante un gigante basato sulla mitologia greca, creatura inventata dalla fantasia di Luís de Camões nel poema epico Os Lusíadas, l’Adamastor, appunto.

Questo belvedere era un salotto intimo e aperto a chiunque, dove tra il prato incolto e i tavolini del chiosco le persone si radunavano per bere una birra e stare insieme, socializzare e godersi il panorama. Si trovava a due passi dal Bairro Alto e in piena Bica, sempre affollata dai vacanzieri qualche metro più in là, occupati a salire e scendere su una delle funicolari più famose e turistiche di tutto il mondo. Negli anni a seguire sarebbe avvenuta una trasformazione sociale di questo spazio; la costruzione di un nuovo hotel a meno di duecento metri di distanza dal miradouro di Santa Caterina avrebbe causato l’attuazione di un’igienizzazione sociale. 

L’ambiente, oltremodo bohémien, vedeva tra i suoi frequentatori anche i giovani studenti, gli artisti di strada e qualche turista di passaggio. In questo luogo tanti erano in cerca di droghe di qualsiasi tipo e gli spacciatori si facevano trovare sempre pronti a soddisfare le esigenze dei propri clienti. Tutto questo non era tollerabile per i proprietari dell’hotel, reclamavano uno spazio decoroso vicino alla propria attività; a risolvere la questione sarebbe intervenuta la Câmara municipal, e di lì a poco l’Adamastor divenne il primo miradouro in città con un accesso condizionato e a determinate ore, frequentato da quel momento in poi praticamente solo dai turisti facoltosi.

«Dai Daniela, quanto cazzo bevi! Sono già le ventidue, meno male che ho prenotato per le ventitré» disse Marco. Sapevamo tutti che stesse dicendo una gran cazzata, anche se eravamo decisamente allegri dopo aver buttato giù grandi quantità di alcol in tutte quelle ore. Decidemmo comunque che fosse il caso di avviarci; al Cozinha non si prenotava, bisognava tuttavia arrivare entro mezzanotte, prima che chiudesse la cucina di questo ristorante angolano in Mouraria, a duecento metri dal ’60, un locale che quando chiuse ci fece disperare e piangere. Famosa fino a pochi decenni fa per le sue prostitute, squallide tascas e alcuni locali di fado, la Mouraria era adesso abitata più o meno da un cinquanta per cento di portoghesi in pensione e da un quaranta per cento di immigrati regolari e irregolari, per lo più provenienti dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh e da diversi stati africani. 

Il restante dieci per cento, almeno così indicavano alcuni studi recenti sulla zona, era composto da spacciatori, studenti e viaggiatori. Questa particolare composizione socioeconomica in qualche modo frenava o inibiva almeno temporaneamente il processo di gentrificazione turistica, tuttavia c’era chi temeva che a breve il bairro avrebbe fatto la stessa fine di Alfama.

Da poche settimane, su un lato di un palazzo in Mouraria era apparso un murales gigantesco, vi era raffigurata una signora con in mano una bomboletta spray e che spruzzava la vernice negli occhi a un turista di passaggio. Fu un’opera allegorica di successo, realizzata da un artista italiano, Andrea Tarli, della quale si sarebbe parlato molto in futuro sui media nazionali e internazionali. 

Maria Severa è identificata come la prima grande cantante di Fado. Si esibiva nel locale di sua madre, una donna conosciuta da tutti come “la Barbuta”, proprietaria di quello che si poteva definire un incrocio tra una trattoria e un bordello. Oggi quel posto era per tutti “Cozinha”; era diventato un ristorante angolano dopo varie peripezie, fallimenti e strani giri di soldi, a detta di alcuni giornalisti portoghesi che avevano provato a indagare senza successo sulla stampa locale e nazionale. Ogni tanto pensavamo se fosse eticamente giusto venire qui, alla fine vincevano sempre le esigenze del portafogli: bastavano pochi euro per mangiare dei piatti tipici africani. Quando non si riusciva a cenare al Cozinha, ripiegavamo sui diversi cinesi clandestini, presenti anch’essi in Mouraria e aperti fino a tardi. Erano diventati nel corso del tempo dei veri e propri ristoranti, uscendo dell’illegalità ma conservando allo stesso tempo il loro fascino. Io però non li avevo mai amati a differenza dei miei amici, la mia era una posizione ideologica, per me a Lisbona aveva senso andare a mangiare solo nelle tascas tipiche o nei ristoranti africani.

Alla fine riuscimmo a cenare al Cozinha e ci spostammo finalmente al ’60, secondo tutti noi indubbiamente il locale più illegale d’Europa, senza uscite di sicurezza e dove ancora si fumava dentro. Julio, il proprietario, un galiziano che viveva in città da molti anni, un giorno avrebbe deciso che tutto questo doveva finire, sarebbe ritornato a Santiago de Compostela e ci avrebbe lasciati orfani del nostro punto di riferimento. Ignari di cosa sarebbe successo di lì a pochi mesi, ballavamo e ascoltavamo il musicista che suonava quella notte, continuavamo a sudare, a bere imperiaismoscatel e cocktail a prezzi modici. Al ’60 si respiravano tabacco e promiscuità in ogni angolo e tuttavia al bancone riuscivi a parlare, nonostante tutto il casino, con chi capitava o con chi volevi provare a rimorchiare, mentre osservavi la gigantografia del Che Guevara affissa al muro.

Oltre a non avere uscite di sicurezza, anche il soffitto era troppo basso; il ’60 era fuori norma sotto tutti i punti di vista ma aveva visto esibirsi al proprio interno i migliori musicisti angolani, brasiliani, capoverdiani e mozambicani che vivevano a Lisbona. Certe notti, quando Julio aveva l’ispirazione, saliva sul palco e chiedeva al musicista di turno di accompagnarlo per dieci minuti. Si metteva a cantare canzoni operaie galiziane e tutti l’ascoltavano in religioso silenzio. Il ’60 era un locale militante, dove ho potuto divertirmi, ballare, sballarmi e bere quantità assurde di grappe di pessime qualità che mi facevo offrire da Julio quando rimanevo senza soldi, il luogo dove ho fatto qualche conquista e forse senza neanche rendermene conto ho rischiato persino la vita.

Tratto da Lisbona è un’assurda speranza (Scatole Parlanti) per gentile concessione dell’autore e della casa editrice